ANALISI PSICOLOGICA

La copertina del N. 1 della storica Rivista Analisi Psicologica – Gennaio Marzo 1978 a cura del C.I.R.S.O.P.E.


Di seguito un importante articolo del Dott. Vittorio Volpi

AUTISMO:
OGGI SI GUARISCE SEMPRE CON
L’AIUTO DEL GENITORE OMOLOGO:
DALLA MALATTIA ALLA SALUTE MENTALE

La ricerca scientifica in psicanalisi.
Che cosa è la malattia psichica, quali ne sono le cause, come si manifesta, quali sono i suoi effetti sui genitori con figli psicotici, quali sono gli strumenti della prevenzione e le condizioni per il ripristino della salute mentale.
di VITTORIO VOLPI


I N D I C E


1. Il frutto e l’albero

2. Che cosa sono la salute e la malattia mentale

3. Come si manifesta la malattia psichica

4. I genitori degli psicotici

5. L’amnesia psicotica e la modifica dei ricordi

6. La Sindrome di Giuda

7. L’impostazione del trattamento

a. I sintomi della malattia psichica

b. Quali sono i soggetti a rischio

c. Quali precauzioni immediate sono possibili

d. Come si sviluppa il trattamento

8. La ricerca scientifica in psicanalisi

9. Psicosi esogena e psicosi endogena: il trattamento psicanalitico delle induzioni e delle somatizzazioni

a. Psicosi endogena e psicosi esogena

b. Il “contagio psichico” attraverso le induzioni: le somatizzazioni

c. Come si guarisce dalla malattia psichica


1. IL FRUTTO E L’ALBERO

“…mi dirigevo allora verso l’orto, dove coglievo una o due mele dall’albero e le divoravo immediatamente. Non mi sentivo colpevole di prendere queste mele… Infatti avevo la netta impressione di abitare in un paese deserto, minerale, irreale e desolato…

La Mamma allora mi portò chili e chili di magnifiche mele ma non potevo toccarle poiché non erano le mie mele, ancora attaccate all’albero-madre… Ma la Mamma non capiva ed esclamava meravigliata: ‘Ma tutte queste mele non sono forse vere? Perché non le mangi?’.

Queste parole mi irritavano e mi allontanavano sempre di più da lei. Solo quando prendeva fra le braccia la piccola scimmia e le parlava – cosa che secondo me faceva troppo di rado – riuscivo a sentire un contatto con lei“.

Nel celebre episodio delle mele staccate ancora acerbe dall’albero (con comprensibile stizza della fattora, proprietaria dell’orto) de “Il diario di una schizofrenica” (Marguerite A. Sechehaye, Journal d’une schizofrène, P.U.F., Parigi; edizione italiana: Giunti Barbera editore, Firenze 1955, cap. XI, pag. 63), Renée rappresenta con semplicità e chiarezza quale fosse il suo problema di malata di mente: essere stata staccata troppo presto, “ancora acerba”, dall’ “albero-madre”, cioè dal rapporto d’amore con sua madre, e letteralmente “divorata” dal dolore, ciò che l’aveva indotta ad attuare l’anestesia del sentimento, causa della sua malattia.

Ecco perché non avevano significato per lei “altre” mele, per quanto “magnifiche”: mancavano del requisito principale, quello di essere acerbe, ma soprattutto ancora attaccate all’albero madre.

Fa molto riflettere questo aspetto, specie se si pensa a certe “strutture di sopravvivenza” dove predomina la crudeltà, solitamente gratuita. Se la Renée si accontentava di prendersela con le mele figlie, “che divorava immediatamente” (e non credo perché avesse fame, bensì perché faceva subire loro la sua stessa sorte, di persona strappata al rapporto primario e immediatamente “divorata” dal dolore e dalla conseguente malattia), altri si rivolgono direttamente al prossimo, a vari livelli.

Diciamo che ciò è tanto più spaventevole, se si considera quanto poco sia l’impegno richiesto per consegnare, a genitori e a insegnanti, quel minimo, di strumentazione psicanalitica, necessaria loro per svolgere una efficace azione preventiva.

La madre di Renée era stata internata nell’ospedale psichiatrico cantonale di Ginevra quando la figlia, la maggiore di vari fratellini e sorelline, era ancora piccola.

Dopo alterne vicende, e ricoveri dapprima in sanatorio per tubercolosi e poi in ospedale psichiatrico, incontrò a 18 anni la psicanalista Marguerite Sechehaye che la prese in casa con sè e in pratica si sostituì alla madre vera. Nell’arco di dieci anni di cure, di ripetuti tentativi di suicidio e di successivi ricoveri in clinica, Renée arrivò a un equilibrio, piuttosto precario, se è vero che alla morte della psicanalista si suicidò.

L’opera pionieristica, e coraggiosa, della Sechehaye, pur essendo un capolavoro in sè, non servì dunque a risolvere il problema. Perché?

Per il motivo elementare ma decisivo che ella, pur facendosi chiamare Mamma dalla giovane che aveva, di fatto, adottata, non era la sua vera madre.

Nei casi altrettanto, se non più gravi, di quello descritto, che abbiamo seguito nell’arco di una trentina d’anni, il risultato è, al contrario sempre risolutivo, quando il trattamento è condotto alla presenza del genitore omologo (la madre per le femmine, e il padre per i maschi).

Ma l’aspetto più significativo, nella modalità da noi adottata, risiede nel ruolo assunto dallo psicanalista, proposto principalmente come supporto, e mai come alternativa al genitore.

Molto diverso fu quello svolto, con tanta generosità, ma anche con tanto sacrificio (e tanti rischi: Renée, come si è visto, tentò ripetutamente il suicidio) e tante frustrazioni la Sechehaye, la quale – agendo il bisogno di essere amata di Renée, ma anche l’atteggiamento proprio del suo tempo, secondo cui si attribuiva il disagio psichico dei figli all’insufficiente amore dei genitori – nel ritenersi capace di amare davvero questa figlia non sua, di fatto si sostituì alla madre vera.

Lo svolgimento, come la durata, e quindi il risultato, del trattamento, sarebbero stati ben altrimenti significativi, se la psicanalista avesse potuto coinvolgere la madre di Renée, anche così com’era, psicotica e ricoverata in manicomio.

Infatti, l’esperienza del rapporto d’amore primario, del primo grande amore della propria vita (quello, per intenderci, che non si scorda mai) Renée la aveva vissuta con la propria mamma, non con la Mamma Psicanalista (l’iniziale maiuscola, nella traduzione italiana – in tedesco l’hanno tutti i nomi – sembra rimasta a sottolineare la distanza fra la psicanalista e Renée)Per quanto malato, deteriorato e, peggio ancora, defunto, il genitore omologo è l’albero sul quale è germinato e si è sviluppato il frutto miracoloso di una figlia, di un figlio, e al quale nessuno potrà mai sostituirsi.

Il che è abbastanza ovvio, se si considera anche l’esigenza, per costruire e mantenere una solida identità personale, di disporre di un rapporto d’amore di riferimento (e quindi stabile nelle vicissitudini di una intera vita), capace di garantire per sempre la costanza della propria immagine, indispensabile per rimanere se stessi lungo tutto il processo di adattamento ai cambiamenti che la vita impone.

La gravità della malattia, e l’entità dell’impegno che comporta la sua guarigione, sono determinate pertanto dalla difficoltà di ripristinare nella persona malata l’accesso al rapporto d’amore con il proprio genitore omologo, rapporto già tutto inscritto in lei come esperienza primaria, e soltanto in un momento successivo oggetto di anestesia.

Laddove l’età del malato è precoce e la presenza fisica del genitore omologo disponibile, la gravità del disturbo è minima, e la durata della cura, pertanto, ridotta. Gravità e durata crescono man mano con l’età e con l’entità degli ostacoli alla disponibilità fisica del genitore.

Spesso si teorizzò come la gravità della malattia psichica dipendesse, in linea gerarchica, dai comportamenti considerati più disturbanti (e chiamati psicotici) o meno disturbanti (e detti nevrotici).

La ricerca scientifica rivela come la malattia sia la stessa per tutti, e pertanto per tutti parliamo di psicosi, con la sola distinzione fra endogena, vale a dire intrinseca al malato, ed esogena, ovverofrutto di induzione psicotica nel soggetto che manifesta il disturbo, da parte di altro affetto da psicosi endogena. Le manifestazioni esterne, utilizzate per diagnosticare l’entità del disturbo, sono in realtà quelle della struttura di sopravvivenza messa in atto dalla persona per poter continuare a vivere senza ricorrere alla propria sensibilità emotiva.

La gravità del disturbo quindi è determinata non tanto dalla struttura di sopravvivenza messa in atto, quanto dalla entità e dalla qualità degli ostacoli al recupero dell’accesso alla esperienza del rapporto primario.

Più che dal confronto fra tipi di disturbo variamente gravi in linea verticale, lungo una gerarchia dei comportamenti, la gravità del caso è pertanto determinata dalla complessità dell’intervento che il ripristino richiede, con approccio individualizzato a ciascuna situazione di disturbo, in sè considerata per così dire in linea orizzontale, sul medesimo piano di tutte le altre.

Non ci sono casi più gravi o meno gravi in sè, e infatti il problema è uguale per tutti: il recupero dell’accesso al rapporto d’amore con il genitore omologo.

Le differenze sono determinate dalle difficoltà esistenti nella situazione esterna, quali le opportunità offerte all’operatore di assumere in carico il caso, la compresenza di altri casi di psicosi, il livello di degrado psicologico e sociale del suo gruppo di appartenenza, o l’accettazione come normali da parte del suo contesto di manifestazioni, al contrario, patologiche.

Non a caso si è sovente parlato della malattia mentale come di una malattia culturale, se non addirittura prodotta dalle ingiustizie sociali. Nulla di più lontano dalla realtà, ma è pur vero che la malattia è contagiosa. Attraverso l’effetto delle induzioni psicotiche, il malato acquista talora una credibilità, un credito tali fra le persone che lo circondano, da creare attorno a sè un vero schieramento difensivo, animato da quanti sono coinvolti nella sua patologia.

Se si tiene conto che la psicosi colpisce le capacità emotive di rapporto, diventa più comprensibile come i contenuti disturbanti trasmessi per induzione dal soggetto malato alle persone sane circostanti, trasformino queste in una sorta di alleati inconsapevoli della malattia, con effetti di gruppo talvolta di non facile approccio. Non mi riferisco tanto a quei fenomeni ben noti quali le associazioni per delinquere, o quali i gruppi di pressione politica, tendenti ad affermare come normali comportamenti patologici quali per esempio la guerra, quanto alla quotidianità dei contesti di lavoro, di studio o del tempo libero, nei quali le manifestazioni della malattia sono accolte e protette come forme caratteriali dai tratti persino divertenti. Si pensi, per tutte, alle strutture di sopravvivenza degli alcolisti, e a quelle erotiche.

Ne consegue che la formazione specialistica dell’analista psicologo, richiede un addestramento specifico all’attività di ricerca scientifica e al lavoro in collaborazione con altri. Il che sembrerebbe ovvio, se non fosse che la conoscenza della malattia e delle sue manifestazioni rappresenta soltanto il primo passo. Quello successivo consiste nell’acquisire la capacità di adattarsi a condizioni di lavoro mutevoli, e di affrontare con gli strumenti della ricerca scientifica i problemi attorno al malato, connessi con la sua patologia, la soluzione dei quali è condizione per avere opportunità di recupero.

Alla ricerca scientifica sulla malattia psichica, e alla formazione degli operatori, si dedica il CIRSOPE, Centro Italiano di Ricerca Scientifica Operativa nella Psicanalisi e nell’Educazione di Milano.

Qui si è scoperta circa trent’anni fa la natura e la causa della malattia mentale, e da più di venti è attiva la Scuola di Psicanalisi, aperta a tutte le figure professionali – dal medico, all’assistente sociale, all’insegnante, al sacerdote e, ovviamente, agli educatori, ai genitori e agli psicologi – che hanno o possono avere a che fare per motivi di lavoro con la psicosi, e svolgono quindi un ruolo nella prevenzione e nella cura della stessa.

2. CHE COSA SONO LA SALUTE E LA MALATTIA MENTALE

La salute mentale si fonda sull’equilibrio fra due modalità di rapporto con la realtà circostante: quella di natura economica e quella di natura simbiotica.

La modalità di natura economica mediante l’intelligenza razionale (o ragione, capacità di rilevare e collegare fra loro secondo nessi logici i fenomeni osservati) interviene a stabilire il rapporto psicofisico con il contesto circostante, per garantire la sopravvivenza fisica dell’individuo.

La modalità di natura simbiotica si vale del sentimento (sensibilità emotiva, capacità di commuoversi, ovvero di sentire e di esprimere i contenuti emotivi, in sè e nella comunicazione con gli altri. Da non confondersi con la capacità di provare determinate emozioni, quali la paura, l’ira, la gratificazione, la soddisfazione) nello sviluppo del rapporto psicoaffettivo con il proprio contesto umano e ambientale, e garantisce la sopravvivenza emotiva dell’individuo.

La modalità di rapporto di natura economica garantisce la sopravvivenza fisica in quanto capacità di discriminare razionalmente fra ciò che è vantaggioso per sè e ciò che può rivelarsi dannoso, di provvedere alla propria alimentazione, alla riproduzione della specie, alla difesa dagli elementi fisici esterni (le temperature estreme, gli agenti meteorologici, le malattie, le circostanze a rischio), all’uso delle risorse disponibili.

La modalità di natura simbiotica garantisce la sopravvivenza emotiva, in quanto capacità sia di stabilire i legami affettivi, indispensabili per motivare la propria permanenza in vita, e sia di riconoscerne la valenza emotiva specifica, che rende ciascuno di essi inconfondibile, perché unico e irripetibile.

Quando viene meno la capacità di rapportarsi economicamente con la realtà, il soggetto va incontro a sempre più gravi difficoltà a rimanere fisicamente in vita: perde via via le forze, non è più in grado di provvedere a se stesso e va incontro alla morte per malattia o per fame, come si vede, ancora fin troppo spesso, nei Paesi sottosviluppati, dove intere popolazioni sopravvivono con difficoltà a condizioni di carestia permanente.

Per contrastare la tendenza all’annientamento fisico, quando l’equilibrio viene meno ai danni della modalità di rapporto di natura economica, si fa ricorso per compensazione alla modalità simbiotica. Chi si è trovato ad affrontare emergenze economiche ai limiti della sopravvivenza fisica, come malattie gravi, stati di abbandono, di affaticamento, di sottoalimentazione prolungati, nelle quali la capacità di mantenere il rapporto economico con la realtà viene pesantemente compromessa, sa bene come sia essenziale, per non soccombere, per non “lasciarsi andare”, mantenere vive in sè le ragioni affettive alla vita.

Anche sull’altro versante, quando viene meno la capacità di rapportarsi simbioticamente con gli altri, il soggetto – di fatto escluso dal contesto umano – si sente scivolare verso la morte, per quella sindrome di annichilimento (scambiata impropriamente con il fenomeno, del tutto fisiologico e necessario, della depressione) definita come “marasma“, per l’assenza pressocché totale di appigli affettivi, di rapporti emotivamente significativi, in grado di alimentare il desiderio di vivere.

Il marasma – ben noto nei neonati deprivati di rapporto parentale – è caratterizzato pertanto da una progressiva e profonda perdita di interesse per la vita, fino a concepire il lasciarsi morire, il suicidio come la soluzione più consona.

La perdita della capacità di rapporto economico con la realtà è l’effetto di agenti esterni, che interferiscono nello sviluppo e nel mantenimento delle condizioni necessarie al rapporto medesimo. In chi dipende dagli altri in parte o in tutto, come un neonato o un malato, è il venir meno dell’accudimento, dell’assistenza; in chi è autosufficiente sono ostacoli di progressiva gravità fino alla carestia, alla guerra, alla detenzione.

Anche la compromissione della capacità di rapporto di natura simbiotica è conseguente a interferenze esterne, nel rapporto d’amore primario, tra figlio e genitore.

La compromissione, anche per un periodo relativamente breve, del contatto emotivo con il genitore, se percepita come perdita irreparabile, è causa di un dolore sufficientemente grande da produrre il congelamento della sensibilità affettiva, vale a dire l’anestesia del sentimento, quale reazione protettiva contro il dolore.

L’instaurarsi dell’anestesia del sentimento rende impraticabile la modalità di rapporto di natura simbiotica, e per contrastare la tendenza all’annientamento affettivo, si fa ricorso, per compensazione, alla modalità di rapporto di natura economica.

Ma come la modalità simbiotica non può sopperire all’assenza di una alimentazione regolare, il ricorso alla modalità economica non può diventare una valida alternativa ai rapporti affettivi.

L’uso della modalità di natura economica in luogo della modalità di natura simbiotica riduce pertanto le possibilità espressive della persona allorché, per esempio, sostituisce all’amicizia la seduzione, all’amore l’erotismo, alla fiducia il controllo, all’assunzione di responsabilità l’esercizio del potere. La visione della realtà, non più equilibrata su due versanti, diventa prevalentemente economica. Il concetto stesso di sentimento si perde e si confonde con quello di emozione, in quanto l’investimento affettivo costante e profondo è precluso, e la sola esperienza disponibile è quella della risposta emotiva immediata ed effimera.

Si comprende allora perché mai una tale situazione produca atteggiamenti ripetitivi, rigidi e stereotipati, quelle “strutture di sopravvivenza”, dotate di comportamenti peculiari – cui si fa riferimento nella letteratura scientifica, per descrivere le varie forme di malattia mentale – che consentano di tenere a bada i sentimenti, e tuttavia di continuare a rispondere alle esigenze quotidiane.

Come una persona, esclusa da una alimentazione regolare, può estraniarsi dal problema del cibo, fino a non sentire più nemmeno i morsi della fame, così quella esclusa dai rapporti affettivi colloca “fuori di sè” il problema del sentimento, dal quale riceve sì dei messaggi, ma alla stregua di “voci” estranee a sè, com’è ben noto nella descrizione della cosiddetta schizofrenia.

3. COME SI MANIFESTA LA MALATTIA PSICHICA

Come si manifesta la perdita dell’equilibrio fra la modalità di rapporto di natura economica e quella di natura simbiotica, a danno di quest’ultima?

Principalmente con l’instaurarsi dell’anestesia del sentimento e, di conseguenza, con l’ipertrofia delle facoltà razionali per compensare le carenze sul versante affettivo.

Una persona malata di mente la si riconosce per la sua scarsa capacità empatica – pur suscitando profondi coinvolgimenti emotivi, a causa della induzioni psicotiche provenienti dalla sua componente emotiva negata – e per la chiusura a ogni possibilità di rapporto di natura simbiotica.

Viene solitamente definita come un muro impenetrabile fatto di egoismo. In effetti appare preoccupata soltanto per se stessa, ma la realtà è che non è in grado di investire su nulla e su nessuno una affettività di cui non possiede la disponibilità. Ciò fa sì che venga considerata cattiva o, peggio, disonesta e criminale: invece è una persona malata; leggere nei suoi comportamenti devianti, anziché la manifestazione di un malanimo interiore, i sintomi della malattia, è il primo passo per arrivare alla cura.

Ora possiamo meglio renderci conto – scriveva la Sechehaye nell’introduzione al libro di cui sopra – che la schizofrenia consiste in una dissociazione fra l’affettività, che è profondamente perturbata dalla perdita del contatto con la vita, e l’intelligenza, che resta inalterata e che, come un operatore cinematografico, registra tutto quello che gli si svolge innanzi. Naturalmente nella malattia vi sono periodi in cui lo stato stuporale è accentuato e in cui l’indifferenza è tale da non permettere alle percezioni di fissarsi in tracce mnemoniche“.

Come si può notare, la psicanalista aveva visto giusto, quando rilevava come in ogni psicotico, e quindi anche in Renée, l’affettività fosse “profondamente perturbata”. Ne attribuiva però la causa alla “perdita del contatto con la realtà”.

La nostra ricerca scientifica dimostra che avviene proprio il contrario: l’affettività negli psicotici è “profondamente perturbata”, cioè quasi completamente bloccata, dall’anestesia del sentimento, con cui la persona malata riesce a rendersi insensibile al dolore emotivo (allo stesso modo con cui la produzione di endorfine anestetizza al dolore fisico). Ne consegue che la percezione complessiva di una realtà risulta limitata ai dati razionali, mentre tutti i dati affettivi vanno perduti.

La “perdita del contatto con la realtà” è pertanto la conseguenza dell’anestesia intervenuta sull’affettività. Priva della percezione attraverso l’affettività, il mondo assume un aspetto completamente diverso da come siamo abituati a vederlo. Come un frutto, privato dell’acqua per liofilizzazione, perde la propria identità, assumendo l’aspetto di una polverina, così il mondo circostante, privato dei dati affettivi che lo tengono legato in un disegno unitario, appare allo psicotico come privo di significato.

Ecco la descrizione di come appare ai suoi occhi la realtà privata del sentimento, nella descrizione che ne dà la protagonista del “Diario di una schizofrenica”:

Durante le lezioni, – scrive Renée a pag. 10 – nel silenzio della classe, sentivo i rumori provenienti dalla strada: un tram, gente che discuteva, il nitrito di un cavallo, un klaxon, e mi sembrava che ognuno di questi rumori si staccasse dal suo oggetto per rimanere inciso nell’aria, immobile e senza senso. Intorno a me, le compagne con le teste chine sembravano fagotti o manichini azionati da un meccanismo invisibile; sulla cattedra il professore che parlava, gesticolava, scriveva alla lavagna, sembrava anche lui un fantoccio grottesco. E sempre quel silenzio impressionante, interrotto solo dai rumori della strada, venuti da lontano, e quel sole implacabile che scaldava l’aula, e quell’immobilità senza vita. Una paura senza limite mi afferrava, avrei voluto urlare.

Alcune volte l’irrealtà mi sorprendeva il mattino presto mentre andavo a scuola. Improvvisamente la strada si allungava infinita e candida sotto la luce del sole; le persone si agitavano qua e là come sciami di insetti, le automobili circolavano in tutte le direzioni senza scopo e in lontananza sentivo il suono persistente di una campana“.

La descrizione di questo mondo in cui ogni comportamento, ogni cosa, ogni suono perde di significato, e le persone appaiono come insetti, o manichini che si muovono come automi, senza una ragione precisa, è quella del mondo senza amore che si apre come un deserto di fronte al malato di mente che, per proteggersi dal dolore emotivo, al sentimento ha dovuto rinunciare.

Potrebbe sorprendere con quanta lucidità Renée sia consapevole di tutto questo, e con quanta precisione, chiarezza e semplicità, riesca a comunicarlo quando a pagina 27 scrive:

Queste persone che nella realtà avevano agito per un determinato scopo, con un motivo preciso, erano svuotate della loro anima e spogliate del loro senso; di loro non rimaneva che un corpo mosso come un automa, privo di emozioni e di sentimenti. Tutto questo era terribile“.

Ma occorre ripetere ancora una volta come, a causa del venir meno dell’accesso al sentimento, gli psicotici per compenso sviluppino in modo notevole le proprie facoltà razionali; e inoltre come, data la visione caratteristica che ne hanno, la realtà, privata dei sentimenti, appaia come in una radiografia, e consenta loro di isolare in questo modo particolari comunemente poco visibili agli altri, per i quali, nella loro percezione normale, fanno corpo unico con la componente affettiva.

Il modo solo razionale di percepire la realtà, del quale dispongono, rivela loro pertanto aspetti sovente “invisibili” agli altri e, quando se ne rendono conto, ciò consente loro di conseguire vantaggi, ovviamente economici e funzionali alla loro malattia, così da apparire solitamente “più furbi”. Invece si limitano semplicemente a fare un uso senza scrupoli (“senza sentimento”) delle opportunità che hanno.

Come ha correttamente osservato la Sechehaye, danno l’idea di “registrare” quello che vedono, poiché la loro è una percezione fredda, senza partecipazione emotiva, del mondo circostante.

Quanto alle cause che non permettono alle percezioni degli psicotici “di fissarsi in tracce mnemoniche”, possono essere ricondotte a una sola e ben precisa: il mancato investimento affettivo in quello che percepiscono, ancora una volta cioè l’impossibilità a stabilire un rapporto emotivo con la realtà. I ricordi sono tanto più vivi quanto più riguardano fatti che coinvolgono sul versante affettivo, nei quali “si investe” con il proprio sentimento.

Lo psicotico non può fare questo, donde la sua necessità di ricorrere a forti motivazioni economiche, per sopperire a questa carenza.

La sua freddezza, il suo egoismo, la sia ira da impotenza e il suo panico si possono capire soltanto se si riesce a immaginare che cosa egli provi a trovarsi costantemente di fronte un mondo arido e senza amore. E si può anche capire perché egli neghi tutto questo, mimetizzandosi con una apparenza di normalità che quasi sempre trae in inganno.

Proprio la mimetizzazione, dietro una apparenza di normalità, facilita quello che lo psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung chiamò “contagio psichico”.

In che cosa consiste il contagio psichico?

Il contagio psichico colpisce tutte le persone normali che hanno a che fare con uno psicotico, modificandone, talvolta in misura ragguardevole, la visione della realtà e talvolta addirittura i caratteri stessi della loro personalità, trasformandoli in malati di psicosi esogena. Essi infatti raccolgono per via empatica e, in mancanza di una evidenza che consenta di attribuirne la provenienza, finiscono per credere propri i conflitti patologici del malato.

Ma come è possibile che uno psicotico trasmetta ad altri i propri contenuti emotivi, se non è in grado di utilizzare il sentimento? Egli infatti si guarda bene dall’accedere alla propria sensibilità emotiva, per lui fonte soprattutto di dolore. Ma la anestetizza proprio perché possiede una sensibilità emotiva.

Sul piano fisico, l’anestesia rende insensibile una parte o tutto il sistema nervoso. Ma non per questo lo distrugge. Esso continua a funzionare, a trasmettere e a ricevere anche se con difficoltà.

Il rapporto emotivo fra una persona sana, equilibrata, e uno psicotico, richiama quello che avviene sul piano fisico durante una anestesia locale, quando la parte del sistema nervoso, che non ricade sotto l’effetto dell’anestetico, continua a percepire i segnali provenienti da quella anestetizzata, sia pure deformati (di gonfiore, di cute ispessita).

Sul piano affettivo il fenomeno è molto simile. L’anestesia del sentimento riduce drasticamente la sensibilità emotiva nello psicotico, ma non può impedire alle persone normali che stanno intorno a lui di raccogliere i contenuti emotivi comunque presenti in lui, a cominciare dalla stessa anestesia del sentimento.

La malattia psichica dunque si manifesta non solo in comportamenti in cui la mancanza di sentimento dello psicotico appare esplicita, sotto forma di indifferenza, cinismo, egoismo, esibizionismo, crudeltà, temerarietà, anaffettività, difficoltà di rapporto, ira da impotenza, erotismo esasperato, attaccamento al denaro, al potere, necessità di controllare gli altri, ricerca e consumo di medicinali e di sostanze che rinforzino l’anestesia stessa, ma anche negli effetti che induce nelle persone sane, dello stesso tipo di quelli descritti, e che, nei sani, si valgono di motivazioni e giustificazioni complesse, necessarie per renderle compatibili con il contesto, di personalità non malata di chi se le ritrova addosso di punto in bianco e non ha il minimo sospetto che non gli appartengano.

Soltanto la grande disinformazione esistente fa sì che si creda ancora di una qualche utilità per il malato di mente la frequenza scolastica o l’inserimento lavorativo quando, in quelle condizioni e senza un trattamento psicanalitico appropriato, è del tutto da escludere una qualsiasi possibilità di socializzazione di un soggetto intrinsecamente autistico.

Il “contagio psichico” fa sì che intorno al malato si possano determinare delle vere e proprie epidemie di follìa. In una classe scolastica, infatti, è sufficiente la presenza di uno psicotico per, come minimo, bloccare ai livelli più bassi la resa dell’intera scolaresca e, in un luogo di lavoro, per portare il reparto, se non la stessa ditta, alla paralisi, al conflitto perenne, al fallimento.

Fra gli operatori che si occupano di psicotici è ormai attestato da una casistica mondiale – sovrabbondante, purtroppo – il rischio di impazzire (in inglese burnt out, “bruciarsi le cervella”), oltre che di assumere comportamenti patologici che, tuttavia, non vengono registrati perché non sono riconosciuti come tali. Ma gli effetti più gravi li subiscono le persone che, allo psicotico, sono più vicine, come i compagni di scuola, di lavoro, i familiari, e i genitori prima di tutto.

4. I GENITORI DEGLI PSICOTICI

Non stupisce dunque se, quando si presentano a noi i genitori di una persona psicotica, ci comunichino un gelo profondo anche in piena estate, panico e fantasie di fuga, la convinzione di avere fallito in tutto, di essere degli incapaci e degli incompetenti, l’inutilità di qualsivoglia iniziativa, da credere che non serva a nulla quello che stanno facendo, quello che hanno fatto fino ad allora.

Questi stati d’animo sono del loro figlio malato, incapace di vedere vie d’uscita alla propria malattia, e che non riesce a manifestare, come abbiamo visto sopra, a causa dell’anestesia del sentimento.

Per il fenomeno dell’induzione psicotica, questi contenuti si trasmettono in particolare al genitore di sesso diverso, al genitore altro; il genitore omologo invece lo si direbbe immune dalle induzioni psicotiche, per lo meno da quelle provenienti dal figlio malato. Quando poi nel contesto ci sono, oltre a quello per il quale si richiede l’intervento, altri familiari psicotici, occorre tener conto anche di essi, con un intervento complessivo, di più operatori contemporaneamente, in quanto le induzioni provenienti dalle diverse fonti interagiscono, complicando il quadro generale.

I familiari sani, e prima di tutti il genitore altro, come si è detto, a loro volta fanno propri i contenuti patologici indotti loro dal malato, e li agiscono come se fossero propri desideri e loro proprie necessità; trasmettono inoltre per così dire di sponda gli stati d’animo censurati dal malato, a tutto il contesto umano circostante, e quindi anche agli psicanalisti, sia a quelli che lo incontrano che a quelli che non incontrano direttamente il malato.

Le famiglie con psicotici si presentano con un livello di disgregazione altissimo. Del resto le manifestazioni psicotiche sono spesso interpretate come effetto di intervento diabolico. Ma che cosa significa diavolo?

E’ un termine derivato dal verbo greco diaballo, che significa “dividere” (e contrapposto a simbolo, latinizzazione anch’esso di un verbo greco, sunballo, che significa “unire”). Nulla di più appropriato della definizione di diabolica attribuita alla psicosi, poiché l’effetto prodotto dalla mancanza di sentimento è soprattutto quello di rendere impossibili i rapporti, al di fuori di squallide relazioni economiche, e quindi di dividere. Qualunque famiglia, che si trovasse a interagire su queste basi, in assenza di sentimento, avrebbe seri problemi a restare unita.

La prima verifica, per la presa in carico di un soggetto psicotico, riguarda perciò la consapevolezza dei genitori circa l’influenza distruttiva che hanno sul loro rapporto le induzioni psicotiche provenienti dalla malattia del figlio.

Spesso c’è da risalire una china lunga anni, durante i quali il solco fra i due è diventato via via sempre più simile a un baratro. Soltanto l’amore per il figlio malato può dare loro la forza di collaborare, di tendersi reciprocamente la mano anche quando sono già separati, e sostenersi perché senza il contributo di entrambi e, in particolare, senza poter accedere ai contenuti trasmessi dal malato al genitore altro, è difficile muoversi speditamente verso la guarigione.

Dall’analisi di questi contenuti, sia di quelli agiti dal genitore altro, sia di quelli indotti in noi, si risale con assoluta certezza a quello che avviene nel malato, alla realtà in cui si trova. Questi contenuti, così devastanti per chi è privo di strumenti di ascolto empatico, diventano elementi preziosi per lo psicanalista, la base indispensabile per impostare tutto il trattamento di recupero. Se non sono addestrati a riconoscerli come estranei a sè, questi stati d’animo frutto delle induzioni psicotiche sono considerati dai genitori come loro propri, con effetti deleteri sulla loro vita di coppia e sulla loro stessa attività lavorativa.

Si immagini che cosa può produrre sul rapporto di coppia l’irrompere dell’anestesia del sentimento, oppure la paura di essere abbandonati, ovvero l’erotismo esasperato, o ancora la convinzione paranoica che l’altro non ti voglia più bene e che ormai tutto è perduto per sempre.

A ciò si aggiunga il fenomeno per cui i ricordi vengono deformati, per adattarli ai nuovi stati d’animo, fenomeno favorito dalla presenza, fra le induzioni psicotiche, anche di quella dell’amnesia. Si è visto infatti come sopra Marguerite Sechehaye parli della difficoltà delle percezioni razionali di “fissarsi in tracce mnemoniche”.

5. L’AMNESIA PSICOTICA E LA MODIFICA DEI RICORDI

Gli attacchi di amnesia, ben noti a chi lavora con malati di mente (a qualsiasi livello, non certo solo con i più gravi), sono anch’essi conseguenza dell’anestesia del sentimento. E’ noto come la memoria di un fatto si mantenga quanto più il fatto è stato investito emotivamente. In anestesia emotiva, perciò, anche l’esercizio della memoria subisce una forte limitazione, ovvero i ricordi stessi vanno soggetti all’anestesia (per cui si parlò di “ricordi inconsci”: ma sarebbe stato più vicino alla realtà considerarli “anestetizzati”).

Chi vive con un malato mentale pertanto subisce momenti, più o meno frequenti, di strane amnesie, per effetto di induzione, ma quasi mai legate agli stessi fatti emotivamente significativi per il malato.

Ne consegue un vero e proprio disturbo della memoria: si sa che si dovrebbe fare una certa cosa importante, ma non si ricorda più che cosa essa sia. Così passano scadenze e si perdono appuntamenti importanti.

Ma l’aspetto più sconvolgente degli effetti delle induzioni consiste nella loro capacità di modificare gli stessi ricordi, specie se connessi anche alla lontana con la storia del malato. Si scopre così, nel corso del lavoro di analisi, come per lunghi periodi si siano avallate giustificazioni insostenibili del suo stato, basate su fatti e avvenimenti del passato “modificati” – grazie all’amnesia – quel tanto che basta per renderli adatti a quello strano utilizzo.

La più frequente modifica riguarda le “colpe” che uno o l’altro coniuge, o entrambi, attribuiscono a se stessi o di cui si accusano reciprocamente. Così la madre enfatizza le paure precedenti il parto per accusarsi di “non avere desiderato” quel figlio; oppure il padre ingigantisce i propri impegni lavorativi durante l’infanzia del figlio, per vedersi come genitore assente, quando in realtà pensava soltanto a lui, preoccupato com’era di non fargli mancare nulla.

Una parte preponderante di casi di psicosi ha la propria origine nei primi anni, se non mesi di vita, e per lo più la causa è una interferenza precoce nel rapporto primario, rappresentata da permanenza in incubatrice, o nella apposita culla per l’esposizione ai raggi ultravioletti, o semplicemente dal soggiorno all’asilo nido dell’ospedale tra una poppata e l’altra (per non parlare di terapie intensive per infezioni o di interventi chirurgici precoci, , imposti da imminente rischio di vita del neonato).

Quindi è molto improbabile che a determinare la risposta dell’anestesia del sentimento siano stati i genitori. Perché dunque un così accentuato sentimento di colpa proprio da parte di essi?

6. LA SINDROME DI GIUDA

Abbiamo visto che lo psicotico trasmette a coloro che gli stanno attorno, per induzione, i propri contenuti emotivi che egli censura, perché lo disturbano. I suoi familiari sentono in sè questi contenuti emotivi, e poiché il loro congiunto psicotico non dà segno palese di esserne l’origine, i familiari stessi li agiscono come se quei contenuti fossero loro propri. Anche i sentimenti di colpa relativi alla malattia del figlio, che tutti i genitori attribuiscono immancabilmente a propri errori educativi, appartengono in realtà a quella sfera di contenuti che il figlio malato censura.

I genitori provano quello che succede ai loro figli come se accadesse a loro stessi. Questo è un dato normale di nozione comune. Nel caso della sentimento di colpa, esso si manifesta in modo molto affine a quello che potrebbe provare il genitore. Nella fattispecie infatti si tratta della colpa che il figlio sente per avere danneggiato se stesso, avendo rifiutato ciò di cui ha bisogno per riuscire a vivere, cioè l’esperienza del rapporto primario, del rapporto d’amore con il genitore omologo.

Abbiamo chiamato questo atteggiamento sindrome di Giuda.

Com’è noto, Giuda Iscariota non tradì Gesù, nel senso che noi diamo oggi al termine tradire, in quanto non lo rinnegò, non si schierò dalla parte del nemico, alla stregua di quelli che noi consideriamo traditori. Egli si limitò a venderlo, per trenta sicli d’argento (il prezzo di uno schiavo adulto), e quindi lo consegnò (ed è questo che in latino si dice tràdere, appunto, da cui l’appellativo di tradìtor), come se fosse stata una merce, ai compratori. Chi tradì Gesù fu piuttosto Pietro, che di fronte ai servi del Sinedrio lo rinnegò, dichiarò di non conoscerlo, di non sapere chi fosse, per ben tre volte, prima che il gallo cantasse…

La storia di Giuda è ben diversa. Egli vende Gesù perché si sente deluso dalla sua azione politica. Era un’epoca, come si arguisce dalla cronaca sulla Guerra giudaica, dello storico di pochi anni successivo Giuseppe Flavio, in cui la resistenza contro i Romani era rappresentata da una miriade di gruppuscoli armati, sovente in lotta fra loro (come succede quasi sempre in questi casi), anche per l’azione dei servizi segreti romani, esperti nel divide et impera, nel provocare cioè la rissa fra i nemici per dominarli meglio in terza posizione.

In quel clima, non era poi così strano che Giuda disprezzasse le idee di Gesù, così poco combattive. Ma lo considerava, come tutti gli altri discepoli, alla stregua di un padre. Dal punto di vista teologico, nel vangelo la figura del Messia è quella di un padre, del Padre per eccellenza. Diventa allora molto verosimile che, con la vendita, Giuda intendesse creare una condizione, sia pure alquanto anomala, ma tale per cui avrebbe potuto disporre in esclusiva del rapporto con Gesù.

La piega che prendono invece gli avvenimenti equivale per lui a una catastrofe, alla propria catastrofe personale. Egli mostra senza ombra di dubbio di rendersi conto della colpa commessa contro se stesso, di essere la causa, sia pure involontaria, della perdita di Gesù, che il rapporto con lui gli era indispensabile, alla stregua di quello con il genitore omologo, allorché, nel momento in cui capisce che Gesù sarà ucciso, esclama: “I nostri patti non erano questi!”.

La reazione dei sacerdoti è però minacciosa: la transazione è conclusa, si tenga i soldi e se ne vada. Ma non è il denaro che serve a Giuda: lo getta ai sacerdoti e, disperato, nel vedersi preclusa per sempre la propria stessa ragione di vita, non trova altra possibilità che quella di lasciarsi scivolare nella morte, uccidendosi.

La situazione in cui viene a trovarsi un figlio psicotico nei confronti del proprio genitore omologo è molto simile: si rende conto di avere bisogno per vivere di accedere all’esperienza di rapporto d’amore con lui, che possiede in sè, ma per mantenere l’anestesia del sentimento si preclude questa possibilità, e mette in atto vari espedienti per difendersi da essa, allontanando fisicamente il genitore, poiché teme ciò che è vero: nel rapporto con lui aumenta la propria sensibilità e, con essa, la propria esposizione alla sofferenza.

E’ nella posizione di chi ha bisogno di qualcuno di cui ha paura, quindi il più delle volte cerca di esercitare il possesso fisico sul genitore, senza farlo capire quasi mai (e con grande invidia verso gli altri familiari, a suo giudizio più favoriti di lui nel rapporto) e, anzi, manifestando semmai ostilità e aggressività nei confronti di esso.

In questo modo, chiaramente, seppure l’operazione gli riesce, il problema non si risolve: a cosa serve infatti avere sotto il proprio controllo il genitore, se poi si continua a rifiutare il rapporto emotivo con lui. Si vedono perciò figli particolarmente legati alla famiglia, che quando il genitore omologo si ammala non lo abbandonano un istante (perché la paura di perderlo è altissima), ma che rimangono ugualmente isolati, malati.

Essi praticano la vicinanza fisica, ovvero si direbbe meglio economica, come surrogato del rapporto emotivo, di cui hanno paura, che non riescono a praticare. Con ciò non potranno mai cominciare a vivere, e la situazione potrà rimanere rigidamente ripetitiva, uguale a se stessa, e accompagnata dalla paura di perdere fisicamente il genitore. E quando la perdita si verifica, come avvenne per Giuda, il loro precario equilibrio, fondato tutto sulla contiguità fisica con il genitore, viene meno all’improvviso, privandoli di ogni motivazione alla vita.

La consapevolezza di essere essi stessi all’origine della loro incapacità, della impossibilità a vivere, genera – come si può facilmente immaginare – degli enormi sentimenti di colpa. Il sentimento di colpa, che consegue alla consapevolezza di danneggiare se stessi con il rifiuto del genitore, o meglio del rapporto d’amore con lui, sia pure perché fonte di troppo grande sofferenza emotiva, viene sottoposto come gli altri all’anestesia, alla censura.

All’esterno non si coglie nulla che riveli il loro vero stato d’animo, ma quei contenuti emotivi che essi negano, censurano in se stessi, non sfuggono alla sensibilità emotiva di chi sta loro intorno, primi fra tutti i genitori. I quali pertanto, in mancanza di riscontri evidenti nel figlio malato, sentono come propri gli stati emotivi che raccolgono dal figlio stesso: questo è il fenomeno che chiamiamo delle induzioni psicotiche.

Nella fattispecie i genitori, allorché provano in sè il sentimento di colpa, non possono certo immaginare che appartenga al figlio, al malato, che venga da lui e che lo nasconda a se stesso, a meno che siano stati correttamente informati sul fenomeno. Quindi non rimane loro che attribuire a se stessi colpe non proprie.

L’inconveniente più immediato lo si osserva allorché gli operatori – educatori, insegnanti, medici, psicologi, psichiatri, assistenti sociali – che hanno a che fare con il caso, se sono privi dei necessari strumenti, trovano quasi ovvio confermare nei fatti – sia pure facendo, a parole, il discorso contrario – i genitori nella convinzione di essere la causa più o meno diretta della malattia del figlio. Il fatto che conferma i genitori nella loro colpa, è principalmente quello di sostituirsi a loro nella cura del malato. Donde il blocco di ogni possibilità di guarigione.

La capacità del sentimento di colpa, proveniente dal figlio malato, di trasmettersi per induzione emotiva nei genitori (e non soltanto in loro, ma prima di tutto – e con molto maggiori possibilità di essere accolto come proprio – in loro), ha altri risvolti altrettanto dannosi, tra cui il più grave è quello che spinge le coppie in difficoltà alla esasperazione dei conflitti, alla separazione e al divorzio.

I genitori, nell’imboccare la china del conflitto coniugale sempre più radicale, non si rendono conto di farlo sotto induzione, e ben presto si avrà, oltre a un figlio malato, anche una famiglia distrutta, con un aumento considerevole delle difficoltà nella cura e nel recupero del malato stesso.

7. L’IMPOSTAZIONE DEL TRATTAMENTO

Nell’arco di circa trent’anni di ricerca scientifica sulla malattia psichica, nell’ambito del Centro Italiano di Ricerca Scientifica Operativa nella Psicanalisi e nell’Educazione, abbiamo avuto fra gli obiettivi primari quello di mettere a punto una metodica di intervento il cui utilizzo, sia pure da parte di personale appositamente addestrato, fosse relativamente facile.

Occorre ripetere che la causa della malattia psichica in sè – l’anestesia del sentimento messa in atto per non soffrire – è piuttosto banale, anche se ha risvolti così devastanti. Lo stesso si può dire della causa non solo di gran parte delle malattie – infezioni da microbi o virus – ma anche delle catastrofi naturali: che cosa si può immaginare di più elementare di ciò che causa una frana, o una inondazione, o l’eruzione di un vulcano?

Nel primo caso, su una pendenza, il sostegno non regge più e il materiale instabile crolla verso il basso; nel secondo le precipitazioni sono talmente abbondanti da non poter più essere contenute nell’alveo dei corsi d’acqua, e l’acqua invade i terreni circostanti; nel terzo la pressione interna al pianeta raggiunge un livello oltre il quale può solo spingere all’esterno i materiali sotterranei.

Detta così, secondo le leggi della fisica, la causa di questi fenomeni naturali, che tuttavia fanno continuamente vittime nel mondo, appare quasi controllabile, anche se lo è sovente con difficoltà. Perché allora sopravvalutare la causa della malattia mentale?

Essa fa ancora paura (così come un tempo facevano paura i fenomeni catastrofici, cui mi sono riferito sopra, quando non se ne conoscevano le vere cause) perché, grazie all’alto grado di mimetismo di cui dispone, concretamente è poco visibile, poco percepibile, e perciò la si conosce ancora troppo poco.

Il primo passo è pertanto quello di informare, per renderli consapevoli del rischio che corrono i malati, e delle opportunità esistenti per curarli e guarirli, quanti hanno a che fare con loro, a cominciare dai genitori, e poi da pediatri, puericultrici, insegnanti di scuola materna, educatori, docenti delle scuole, le indicazioni pratiche per riconoscere il disturbo e per attuare i primi interventi.

a. Quali sono i sintomi della malattia psichica.

Il sintomo principale della malattia è la sua stessa causa, vale a dire l’anestesia del sentimento. Quella che va verificata è quindi la capacità del soggetto di mettersi in rapporto empatico con l’altro.

Il mancato utilizzo della propria sensibilità emotiva porta il bimbo a non investire emotivamente nei rapporti con le persone e quindi con quello che lo circonda, ed è facile che appaia, oltre che scarsamente socializzabile, anche in difficoltà nell’apprendimento di una qualche forma di comunicazione. Lo stesso linguaggio risulta o assente o stereotipato o addirittura sostituito da una mimica essenziale, ridotta cioè al minimo indispensabile per manifestare le proprie esigenze elementari.

Il segnale inequivocabile dell’instaurarsi del disturbo si legge tuttavia nell’atteggiamento di rifiuto verso il genitore omologo.

Perché il rivelatore determinante consiste nel rifiuto verso il genitore del medesimo sesso?

Perché ogni essere umano matura la propria identità, la coscienza di sè, per capirci, all’interno del rapporto d’amore con il proprio genitore omologo.

E dunque, se il soggetto malato intende mantenere attiva l’anestesia del sentimento, è costretto a tenere a bada, lontano da sè, il proprio genitore omologo. Salvo poi aggredirlo, portargli delle provocazioni sotto forma di atteggiamenti di rifiuto per lo più eccessivi, non necessari, poiché l’altro capisca che egli ha bisogno di lui, affinché non si allontani da lui, non lo abbandoni, che non lo lasci solo, ma lo aiuti a ritrovare il proprio equilibrio fra ragione (la componente di natura economica, ora prevalente in lui) e sentimento (la componente di natura simbiotica, che sta tenendo sotto controllo, con i noti danni alla sua salute psichica).

Lungi dall’essere una fonte di malattia, il rapporto di natura simbiotica è al contrario il rapporto più equilibrato di cui la natura umana dispone, così come lo vediamo realizzato nella simbiosi tra figlio e madre durante la gravidanza.

All’interno di esso non esiste una parte dominante e una parte dipendente (come avviene di necessità nel rapporto di natura economica), ché anzi ognuno dei due partecipa della vita dell’altro nella pienezza della propria libertà e della propria responsabilità.

Ciò è reso possibile dall’essere un rapporto d’amore, tra la madre e il feto durante la gravidanza, e dopo il parto del bimbo o della bimba con il genitore a lui o a lei più simile, dal quale viene continuamente riconosciuto come “sè”, all’interno di un rapporto d’amore così totale e completo da non esserci l’eguale, e che chiamiamo per l’appunto rapporto d’amore primario.

b. Quali sono i soggetti a rischio.

Da quanto scritto sopra, è evidente che i soggetti a rischio sono quelli che hanno subito interferenze precoci nel rapporto primario, rappresentate per esempio da:

– perdita di un genitore, in particolare di quello omologo;

– interventi medici subito dopo il parto (come la permanenza in incubatrice) e nel primo triennio;

– allontanamento dai genitori anche parziale (per: permanenza alla nascita nel nido al reparto di maternità, frequenza successiva all’asilo nido, malattia dei genitori, affidamento a estranei durante l’assenza per lavoro dei genitori) nel primo triennio di vita;

– allattamento artificiale, o svezzamento troppo precoce e traumatico.

c. Quali precauzioni immediate sono possibili.

La prima precauzione da prendere è quella di favorire, proteggere e, se necessario, ripristinare al più presto il rapporto con il genitore omologo, fin dal momento del parto. Il parto denominato “non violento”, o “tibetano”, o ancora “Leboyer”, risponde a queste esigenze.

Negli asili nido, poi, qualunque puericultrice può richiedere che all’arrivo o alla partenza dal nido la madre della bimba, o il padre del bimbo, si fermi un quarto d’ora con il figlio in braccio a parlare di come sono andate le cose fino a quel momento. Anche il pediatra può incoraggiare la coppia a mantenere l’allattamento al seno il più a lungo possibile (rassicurando la madre circa i timori ingiustificati di possibili danni alla sua salute), e a consentire al piccolo di dormire vicino al genitore omologo.

In caso di ricovero in ospedale, va mantenuta il più a lungo possibile la presenza del genitore omologo; nel caso di un maschio, sarà sufficiente la presenza della madre ai pasti, ma quella del padre è necessario che ci sia durante tutte le ventiquattro ore.

Con queste semplici precauzioni è già possibile eliminare gran parte delle interferenze nel rapporto primario.

d. Come si sviluppa il trattamento

Ogni situazione è caratterizzata da manifestazioni sue specifiche, per cui non è possibile in astratto delineare un intervento valido per tutti. Tuttavia esistono alcune scelte di fondo, premessa a che il trattamento abbia successo.

I genitori sono sempre al centro del trattamento.

La loro seduta è il cardine di tutta la cura.

In essa si approfondiscono e si interpretano i messaggi cifrati provenienti dal malato, e si determina l’orientamento che gli interventi debbono assumere.

La prima esigenza dei genitori è perciò quella di apprendere le conoscenze basilari, necessarie al successo della cura.

Ciò si traduce in un notevole vantaggio iniziale, che si mantiene per tutta la durata del trattamento, in quanto essi sono coloro che trascorrono la maggior parte del tempo con il bimbo, e ne conoscono nei particolari più minuti tutte le manifestazioni. Il diario scritto che chiediamo loro di tenere rappresenta per noi la fonte principale di indicazioni per decidere, di volta in volta, le scelte da prendere. Le informazioni contenute nella cronaca dei genitori vanno capite e quindi interpretate e valorizzate insieme ai genitori medesimi, che assumono a quel punto un ruolo, e una importanza concretamente pari, se non superiore, a quella degli operatori psicanalisti.

Di norma, lo psicanalista dice il che cosa fare, ma il come farlo e il quando farlo lo decide esclusivamente il genitore omologo, l’unico in grado di capire, o meglio di sentire, se il momento è quello opportuno e il modo è quello efficace.

Talvolta il genitore omologo appare incerto, dubbioso, impacciato, poco convinto, e viene il desiderio di dargli forza, se non di forzarne un poco l’andatura. Nulla è più pericoloso di un’azione simile. Si tratta sempre, da parte dello psicanalista, di una iniziativa fuori luogo, poiché dettata, o meglio, determinata dalle induzioni che gli arrivano, attraverso il genitore altro, dall’impaziente malato.

Da parte dello psicanalista occorre dunque tener conto che, a qualunque costo, su ciò che riguarda il figlio malato il solo a capire quando e come muoversi è il genitore omologo.

Per questo, come precondizione a incominciare il trattamento, chiediamo ai genitori due cose:

* la prima è che si vogliano bene (poiché la psicosi del figlio tende a dividere, e se nel loro rapporto affettivo c’è una piccola incrinatura, la malattia del figlio tenderà a farla diventare una voragine) e che il loro rapporto d’amore sia manifesto anche attraverso gesti, che il genitore altro utilizza per rappresentarlo agli occhi del figlio malato (una carezza, un fiore regalato al coniuge), il quale – privo com’è di sensibilità emotiva – crede solo a quello che vede;

la seconda è che il genitore “altro”, abbia fiducia totale e cieca nelle scelte terapeutiche che il genitore omologo fa nei confronti del figlio malato.

Quando il bimbo è molto piccolo, le sedute della coppia, a cadenza quindicinale, sono più che sufficienti al recupero completo, e la guarigione è definitiva.

Quando invece il soggetto è più grandicello, oltre che con le sedute di coppia che, come si è detto, sono il cardine di tutto il trattamento, si interviene in un secondo tempo con sedute – anch’esse quindicinali o, al massimo settimanali – del figlio con il genitore omologo, condotte di preferenza da una coppia di specialisti, uno solo dei quali interviene, mentre l’altro tace, osserva e annota tutto quello che avviene.

Si tratta di sedute molto specifiche e che richiedono ciascuna una preparazione lunga e minuziosa.

Esse sono precedute dallo studio del caso, momento di confronto cui, periodicamente, intervengono anche i genitori, nel corso del quale si rivede tutto il materiale disponibile.

Protocolli delle sedute precedenti, vissuti degli analisti, cronaca fornita dai genitori, elaborati della persona malata e, se sono presenti i genitori che li custodiscono, le registrazioni video delle sedute con il genitore omologo, sono riletti e discussi approfondendo i punti che appaiono suscettibili di fornire indicazioni sull’orientamento che deve prendere l’intervento di recupero.

Quindi si stabilisce quale sia l’obiettivo della seduta, alla luce del quale elaborare una serie di considerazioni scritte, cui lo specialista che interviene durante la seduta medesima, dà poi lettura rivolgendosi sempre al genitore e mai al malato.

Il contenuto delle varie considerazioni, e il modo con cui viene presentato al loro interno, sono diretti a favorire l’azione che il genitore sta attuando nel ripristinare il rapporto d’amore del figlio con lui.

Che si dia lettura a delle considerazioni scritte, e non si proceda improvvisando, è dovuto alla estrema difficoltà di sottrarsi alle induzioni psicotiche del malato; già con queste precauzioni è infatti da prevedersi qualche effetto indesiderato, come l’omissione della lettura di qualche brano, o la lettura che ne sconvolge il significato.

Ma tutto ciò, data anche la presenza di un secondo analista che contribuisce a mantenere una certa lucidità nella procedura, può essere utilizzato in una occasione successiva.

Le sedute del malato con il genitore sono quindi strutturate in modo da mettere al centro il genitore stesso, senza lasciare spazio di manovra alcuna al malato.

All’interno di esse una situazione iperprotetta, qual’è quella che si crea in ogni seduta di analisi, e alla quale si aggiungono qui alcuni caratteri fondamentali di quella originaria, del rapporto primario, data la presenza fisica del genitore, gli viene così offerta la possibilità di aprirsi, molto gradualmente, all’uso della propria sensibilità emotiva, senza particolari rischi di incorrere nella paura delle sofferenze, al sentimento inevitabilmente legate.

Con ciò, non ci si aspetti che siano sedute facili, e spesso accade che – almeno le prime volte, e sempre in coincidenza con le crisi evolutive – il malato manifesti in esse tutto il proprio rifiuto/richiesta verso il genitore con urla, simulazioni di fuga, insulti, pianti, rintanamenti.

Tuttavia sono cose decisamente trascurabili, rispetto agli enormi vantaggi che a questi spettacolini fanno seguito e, aggiungiamo per gli addetti ai lavori, a confronto con quello che sarebbero soliti fare qualora la presenza del genitore non fosse stata posta come condizione indispensabile.

Proprio questo utilizzo della seduta da parte del malato conferma peraltro come essa sia un prezioso momento di crescita (oltretutto registrato con la videocamera dal genitore altro in vista del suo impiego come termine di paragone in una fase successiva), cui fa seguito in famiglia la sua migliore disponibilità a lasciarsi curare.

8. LA RICERCA SCIENTIFICA IN PSICANALISI

La ricerca scientifica, in psicanalisi, ha per oggetto gli eventi psichici del ricercatore stesso, nei suoi rapporti con gli altri e, in particolare, in quello con il portatore di malattia psichica.

Una indagine, dall’esterno, sugli eventi psichici di un’altra persona, è mediata sia dagli strumenti usati, sia dallo stato psichico del ricercatore. Lo studio e l’interpretazione di transfert e di controtransfert, rivelano infatti che il malato psichico trasmette per via empatica i contenuti emotivi che lo disturbano, vale a dire tutto quello che sottopone a censura con l’anestesia del sentimento (si veda più oltre).

La formazione scientifica del ricercatore è la stessa dell’analista psicologo, e passa attraverso i seguenti livelli operativi.

a. Primo livello: addestramento all’ascolto empatico.

Il primo passo è quello di imparare a usare la propria sensibilità emotiva per distinguere i contenuti propri da quelli estranei, provenienti da soggetti sani e da quelli disturbati. A questo livello si impara a riconoscere la differenza fra la percezione razionale e quella basata sul sentimento, privilegiando l’ascolto dei propri stati emotivi, a seconda delle persone con cui si entra in rapporto, in situazioni individuali e di gruppo.

b. Secondo livello: analisi dei vissuti.

vissuti emotivi che si raccolgono nei rapporti, sono stati d’animo all’origine normali, ma la cui entità e il cui investimento cambiano profondamente a seconda della persona che li trasmette. Donde la necessità di analizzarne il contenuto, per poterne riconoscere l’esatta natura e il conseguente significato, e infine distinguerne la provenienza, quando dal ricercatore stesso, e quando da quella specifica persona incontrata.

c. Terzo livello: lettura delle induzioni.

Il materiale viene raccolto attraverso le comunicazioni empatiche provenienti dalla persona disturbata, per induzione, analogamente a ciò che avviene per le induzioni magnetiche; la comunicazione è immediata, non passa cioè attraverso alcun mediatore – pensiero strutturato, disegno, parola, suono – e richiede una lettura, una trascrizione la più aderente possibile al significato originale nel codice del linguaggio, onde renderla operativamente utilizzabile all’interno delle sedute di psicanalisi.

d. Quarto livello: confronto con le induzioni raccolte dai colleghi nella stessa seduta.

Il quadro della situazione patologica presenta più lati, che sono raccolti con maggiore ricchezza di particolari da più operatori, presenti in silenzio nella seduta stessa di analisi, dove annotano i propri vissuti, sui quali sarà possibile lavorare successivamente.

e. Quinto livello: assunzione in analisi di situazioni complesse da parte di più analisti.

Nel trattamento di situazioni complesse, dove esistono più soggetti disturbati in una medesima realtà (famiglia, comunità, luogo di lavoro), si supera l’incompatibilità, cioè l’impossibilità a intrattenere rapporti fra psicanalisti, impegnati nell’analisi di soggetti in relazione costante fra loro, con la compartecipazione alle sedute altrui e il confronto delle induzioni raccolte.

Il consolidamento dei vari livelli è frutto di quasi trent’anni di ricerca scientifica operativa, e di sperimentazione sul campo, con la scoperta della causa e della natura della malattia psichica.

Il primo problema della ricerca è quello della diagnosi, di riconoscere lo stato di patologia psichica. Per riuscire a cogliere adeguatamente la sintomatologia psicotica occorre pertanto un addestramento specifico all’ascolto empatico. Come sappiamo infatti il disturbo si manifesta prevalentemente nella comunicazione dei sentimenti.

Il primo impatto con la persona disturbata è rappresentato perciò dall’impossibilità di un vero scambio emotivo. Ciò vuol dire che nell’interlocutore, dello psicotico, le emozioni vengono esaltate, in quanto egli è capace di ricevere le induzioni provenienti dalla persona disturbata.

Poiché invece quest’ultima è praticamente impermeabile alle comunicazioni emotive altrui, solo un addestramento rigoroso consente di prendere le distanze dall’ondata di emozioni da cui si è investiti, e di riuscire a leggere in esse quello che ella vuole comunicare.

Si tratta, non dimentichiamolo, di una persona malata e, come tutti i malati, si comporta da perfetta egoista, vuole essere al centro dell’attenzione e, per ottenerlo, è disposta a tutto: a fingere, a ricattare, a sedurre, a sfruttare i punti deboli altrui senza scrupoli. E non è minimamente in grado di preoccuparsi degli altri, e men che meno di facilitare la comprensione dei motivi reali del proprio disagio all’interlocutore.

Accanto a lei si possono provare grande commozione, voglia di piangere, struggimento infinito (anzi, lo “struggimento” lo si sente soltanto per una persona psicotica). Ma non c’è risposta: dall’altra parte c’è il muro, anche se accompagnato, almeno inizialmente, da una certa cortesia. Ci può essere anche dialogo, talora molto acuto sul piano intellettuale, ma sempre con scarsa o nulla empatia.

Con una persona disturbata psichica si può avere l’impressione di stare persino bene, ma come? In una specie di campana di vetro, in uno spazio ovattato dove gli stimoli esterni arrivano attenuati. Manca la capacità di mettersi in discussione. E’ del tutto assente la disponibilità ad accettare i cambiamenti attorno a sè.

Ma anche non accetta di cambiare: produce, per salvaguardare se stessa, e induce, negli altri intorno a sè, un “blocco psicotico”, una sorta di incapacità, di impotenza a cambiare, accompagnata da violenta ira (repressa, e che quindi passa in chi le sta vicino provocando discordia, litigi, conflitti tanto assurdi quanto immotivati), di chi vorrebbe cambiare la propria vita, evolversi, ma non trova mai il momento adatto per mettersi in moto.

Nella struttura di sopravvivenza, nota come “autismo”, si vede rappresentata fisicamente molto bene questa incapacità a cambiare: la persona sta praticamente rinchiusa in un mondo tutto suo, nel quale è estremamente difficile entrare, e dal quale non esce mai.

Per avere un’idea di che cosa significhi il “blocco psicotico”, occorre fare riferimento alla condizione di guerra, dove tutto sembra muoversi, ma dove in realtà la vita, oltre che in costante pericolo, è proprio ferma. Un quadro efficace di blocco psicotico lo dà Luis Buñuel nella pellicola “L’angelo sterminatore”, dove un gruppo di amici, riuniti a cena dopo il teatro, non riesce più a uscire da una salone, peraltro privo di porte. Né, dall’esterno, i soccorritori (esercito compreso!) riescono a infrangere quel muro invisibile che li tiene isolati.

Il tutto, nella pellicola e nella realtà, avviene per lo più in un contesto di apparente normalità. E’ abbastanza scontato che lo sforzo, con cui la persona malata di mente cerca di sopravvivere, si traduca anche nel tentativo di darsi almeno una apparenza di normalità.

Tocca al sano leggere, oltre la facciata, la richiesta di aiuto che traspare sempre, e sempre in termini ultimativi, da emergenza, quando anche (o meglio: soprattutto) le cose vanno avanti allo stesso modo da anni, per cui giorno più, o giorno meno, non cambierebbe comunque gran ché. Però la fretta di intervenire che si prova con una persona disturbata è sempre all’insegna di una urgenza spasmodica, in contrasto con l’anaffettività, ai limiti dell’indifferenza, che manifesta, e che compensa con l’acuirsi delle facoltà razionali, dando luogo a fenomeni caratteristici come la “furbizia”, gestiti senza soverchio scrupolo.

Il riso e il pianto sono asincroni, non hanno una corrispondenza puntuale, ma avvengono o in eccesso, o in difetto, o fuori luogo, rispetto alle cause che li provocano, e la cosa può sembrare persino simpatica. Ma si parla anche di riso, o di pianto, “isterico”: l’immagine più aderente è quella del bimbo piccolo, che ride quando qualcuno cade per terra (o finge di cadere: e infatti i pagliacci, negli spettacoli per bambini, sfruttano sovente questo tipo di trovata per farli ridere), o piange perché gli viene tolto di mano un oggetto.

Nel caso della malattia mentale i comportamenti non sono tanto “infantili”, quanto “filiali”. In questo aspetto si trova il messaggio di richiesta d’aiuto, l’indicazione per realizzare l’intervento di ripristino. E infatti si chiede di essere aiutati a ritrovare l’accesso al rapporto d’amore con il genitore omologo.

9. PSICOSI ENDOGENA E PSICOSI ESOGENA. GLI INTERVENTI PSICANALITICI SULLE INDUZIONI E SULLE SOMATIZZAZIONI

a. Psicosi endogena e psicosi esogena.

Si è visto come si manifesta la malattia in un soggetto con suoi propri disturbi dell’affettività, vale a dire in un soggetto malato di psicosi endogena, che trae origine dalle vicende interne a lui, dalla sua storia.

Ora vediamo come si presentano i sintomi della malattia in un soggetto sano, che li assume per contagio dalla vicinanza con uno psicotico, cioè da chi è affetto da psicosi endogena.

La sua è intanto una psicosi esogena, poiché trae origine da una influenza esterna, al di fuori di lui e della sua storia, ma che si manifesta in lui, nei suoi comportamenti, per induzione emotiva.

Già i primi psicanalisti si accorsero di questo fenomeno, poiché pagarono sulla loro pelle, talvolta a carissimo prezzo, il fatto di “agire” (cioè di fare entrare nella quotidianità della propria vita), nel corso del lavoro con le persone disturbate, le tendenze patologiche di queste ultime. Essi si accorsero, non sempre di tutto e non tutti, purtroppo, ma quanto meno nella maggior parte, che durante e dopo le sedute la loro visione della realtà cambiava sensibilmente, avvicinandosi a quella riscontrata nei pazienti.

Si parlò allora di “transfert” (del trasferimento cioè da parte dei malati di mente dei propri conflitti sull’analista, per un fenomeno aggiuntivo chiamato “proiezione”) e di “controtransfert”, come veniva chiamata la risposta “agita” dall’analista.

La scoperta della causa della malattia mentale ha chiarito come gli stati emotivi, che lo psicotico sottopone ad anestesia, si trasmettano alle persone sane intorno a lui per induzione emotiva. Come si è visto sopra, egli appare, a chi ha a che fare con lui, così poco coinvolto in qualsivoglia stato emotivo da favorire negli altri la credenza che, quanto stanno sentendo, siano stati d’animo loro propri, e non invece – come avviene in realtà – indotti dal malato di psicosi.

Tali contenuti possono influenzare la sfera emotiva del ricevente, sia esasperando stati d’animo già presenti in lui, a livelli però trascurabili, sia introducendo condizioni emotive del tutto nuove. Vediamo come.

Tutti, nel corso di una giornata, siamo spinti dall’appetito a nutrirci: ma sotto l’effetto di una induzione psicotica ci si può sentire affamati, desiderosi di determinati cibi in quantità e di qualità del tutto estranee alle nostre reali esigenze. Questo tipo di esperienza è da tempo ben conosciuto agli analisti che hanno in trattamento soggetti bulimici. Nel caso di pazienti anoressiche, gli effetti sono opposti, e vanno a esasperare le preoccupazioni per il mantenimento della linea, e non solo delle analiste femmine.

Per quanto riguarda invece un contenuto nuovo, può avvenire che l’incontro con uno psicotico ci lasci addosso una profonda sfiducia in noi stessi e nel nostro lavoro, un senso di inutilità verso quello che stiamo facendo, del tutto immotivati, stante la fiducia sperimentata nelle nostre capacità professionali, e la motivazione che da tempo ci spinge a quella attività.

Nell’attività di ricerca condotta presso il CIRSOPE, è quindi naturale pratica quotidiana riscontrare negli operatori consistenti presenze di induzioni emotive a livelli patologici, provenienti dai casi in trattamento.

Per guadagnare tempo nel nostro lavoro di supervisione quotidiana (che si effettua in due momenti, all’inizio e al termine del lavoro), con gli educatori che hanno in carico per molte ore al giorno questi malati, abbiamo trovato utile compilare un elenco delle induzioni, che poi sono più o meno sempre le stesse, data la rigidità e la stereotipia che la psicosi determina.

In questo modo il lavoro si sveltisce poiché molto rapidamente ogni operatore individua, nel prospetto prestampato, le induzioni che in quel momento si sente addosso. La pratica di raccogliere i propri stati emotivi una o più volte al giorno, cui si arriva dopo un addestramento all’ascolto empatico di circa due anni, facilita anche il sorgere negli operatori di fantasie sia come immagini che come storie o semplici frasi o espressioni verbali che, affiancate ai contenuti emotivi, rappresentano una fonte di informazioni sulla malattia insostituibile, per la visione d’insieme che fornisce, la precisione dei dettagli e la ricchezza di particolari.

L’addestramento all’ascolto empatico, vale a dire all’ “analisi delle induzioni”, nella nostra scuola viene portato a un livello di approfondimento tale, da consentire all’operatore di risalire, dalle induzioni raccolte, al quadro effettivo della patologia presente nella persona seguita.

b. Il “contagio psichico” attraverso le induzioni: le somatizzazioni.

La malattia psichica, attraverso le induzioni, trasmette a quanti sono contigui al malato i contenuti emotivi, e perciò disturbanti, che questi porta con sè. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non si tratta di sentimenti molto originali e nemmeno motivati da particolari conflitti interiori: la malattia psichica, vale la pena ricordarlo, è in sè un disturbo molto banale, in quanto esaspera, portandoli al parossismo, stati emotivi normalissimi, i cui naturali risvolti negativi il malato non è abituato ad affrontare, e dei quali ha pertanto un timore esagerato.

Essi dunque vengono trasmessi agli altri non da soli, ma con la componente di terrore, per la paventata sofferenza, che lo psicotico associa loro.

Ciò li rende distruttivi in un soggetto impreparato a riconoscerli e a ridimensionarli in sè.

Il soggetto sano, nel momento in cui fa propri questi contenuti, li considera “normali” alla stessa stregua di tutti gli altri che ha sentito in sè fino ad allora. L’esperienza lo porta perciò a spiegarsi questi stati anomali con una causa normale, che necessariamente ricerca dappertutto, e prima di tutto in se stesso, tranne che nello psicotico. Questa è la ragione per cui un numero così alto di operatori, in ambito psicologico e psichiatrico, si convince di essere portatore in prima persona di disturbi dell’affettività talvolta molto gravi.

D’altro lato, ciò che arriva attraverso le induzioni psicotiche non può che segnare profondamente chi lo riceve. Si tratta di ansia, e di angoscia, così forti da mozzare il respiro, da accelerare o deprimere il battito cardiaco, da provocare amnesie improvvise, attacchi di panico, sentimento di fallimento totale, erotismo esasperato, ira incontrollabile da impotenza, attaccamento improvviso al denaro, agli oggetti o alle persone come se fossero oggetti anch’esse, fino ad arrivare a gravi somatizzazioni come ulcera gastrica, tachicardia, aumento della pressione sanguigna e persino stati di preinfarto.

La cosa non finisce lì: una volta convintosi che siano suoi propri, anche desideri, comportamenti, credenze, che il malato censura, vengono “agiti” dall’operatore in modo ben diverso da quello che riuscirebbe a mettere in atto, con tutti i propri limiti, lo psicotico.

Alle persone sane che se li ritrovano in sè, riesce molto difficile nutrire anche il minimo dubbio che si tratti di materiale che non appartenga loro: hanno l’impressione al contrario che sia lì da sempre, e che essi, soltanto, non se ne erano accorti prima. L’aspetto tragico è proprio questo: gli operatori sprovvisti di strumenti psicanalitici, quando “agiscono” i contenuti psicotici, lo fanno non solo con estrema naturalezza ma anche con quella estensione, quell’intensità e quella partecipazione altrimenti sconosciute a uno psicotico, bloccato com’è nei propri comportamenti stereotipati.

Ne consegue che la persona sana si trova ben presto coinvolta in comportamenti non soltanto a sè estranei, ma che anche disapprova, o cui non è in realtà interessata, ma che rischia di trovare interessanti ed entusiasmanti, come di cose difficili che finalmente (!) le è consentito realizzare. In realtà si tratta per lo più di cose molto banali, la cui originalità è soltanto apparente e i cui caratteri, anzi, sono decisamente regressivi.

Come può essere tutto questo? Non dimentichiamo che la malattia psichica è prodotta dalla esclusione della sensibilità emotiva, ciò che travisa profondamente la percezione della realtà, in quanto parziale e limitata a un unico aspetto, quello economico. Quindi, la capacità di giudizio di una persona induzionata, oltretutto priva della consapevolezza di esserlo, è radicalmente compromessa dalla invasione dei desideri assurdi e decisamente meschini (anche se per lui sono il massimo di cui è capace) che il malato trasmette.

Le induzioni psicotiche, proprio perché provengono da una persona che non riesce a fare esperienza (perché non investe emotivamente in quello che fa, e quindi ha – al di fuori dei dati gestibili con la ragione -pochi ricordi e per di più poco recisi), modificano anche i ricordi e, pertanto, la persona induzionata incontra gravi difficoltà a fare ricorso alla propria esperienza, per confrontarla con quello che sta facendo. Nell’ “agire” sotto induzione psicotica, compie perciò errori grossolani di giudizio, non riesce a valutare correttamente i rischi che sta correndo, come se fosse del tutto sprovveduta e inesperta.

Un esempio tipico di effetto deformante delle induzioni è quello del “fanatismo”.

Tutti vediamo come, persino in occasione di gare sportive, in cui è arcinoto a tutti che i contendenti si affrontano per mestiere, tra gli spettatori possano scoppiare delle risse addirittura con morti e feriti.

Se la cosa si verifica in contesti già di per sè abbastanza estranei ai reali interessi degli spettatori, come sono gli spettacoli sportivi, non c’è da meravigliarsi per quello che succede allorché il fanatismo si dà valori politici o religiosi, come ogni giorno veniamo informati dalla radio, dalla televisione e dai giornali.

Nonostante anche qui, le motivazioni siano del tutto posticce e assurde, esse finiscono per apparire normali a causa della presenza, nel gruppo, di psicotici che – pur restando opportunamente ai margini della vicenda – inducono negli altri i contenuti capaci di deformare una corretta visione della realtà.

Quanto agli effetti delle induzioni sul personale che si prende cura degli psicotici, si tratta di una vera e propria malattia professionale. Classico è il caso del bisogno di essere amato dal genitore omologo. L’operatore che lo agisce, prova questo sentimento ogni volta che parla (non solo, ma anche se la intravvede o persino la pensa) con la persona disturbata. Non è difficile perciò che, ben presto, l’operatore si convinca di essere “innamorato” di lei, a tal punto che sovente si hanno di questi matrimoni, con cui ci si illude di dare una sistemazione positiva al malato di mente, oltretutto mettendolo in coppia con una persona che dovrebbe intendersi di psicosi.

La vita di coppia tuttavia, in questo modo, nasce senza alcun fondamento solido, priva com’è di una qualsivoglia premessa affettiva, ma soltanto sulla base effimera di una sorta di “attrazione fatale”.

L’operatore, inoltre, dà una scarsa prova di competenza, allorché si pone, con il matrimonio, nell’impossibilità di far fronte al suo compito, che era semmai quello, prima di tutto, di guarire il malato, non di sposarlo. Si può dunque parlare a buon diritto di “comportamento folle”, dell’operatore che sposa la persona psicotica. Infatti egli ha semplicemente “agito”, con il matrimonio, il desiderio di darsi una apparenza di normalità, della persona malata, desiderio che, rigida com’è, da sola non sarebbe mai riuscita a realizzare, per il bene proprio, dell’eventuale coniuge e dei possibili figli.

Il folle progetto si realizza invece grazie all’intervento dell’operatore. Egli, nel fare proprio questo desiderio patologico della persona malata, non si rende conto ovviamente di come stanno realmente le cose e, anzi, se qualcuno, fosse anche un suo genitore, cerca di dissuaderlo, reagisce come se si tentasse di impedirgli di realizzare il sogno della sua vita. Poco più avanti avrà la conferma di essere entrato in una vita da incubo, e si accorgerà anche di come non sia poi tanto facile tirarsene fuori.

Ma intanto, la sua fantasia dominante è molto precisa: chi lo vuole dissuadere gli appare una sorta di don Rodrigo di manzoniana memoria che vuole intromettersi, con un “Questo matrimonio non s’ha da fare”, con lo scopo di accaparrarsi egli la promessa sposa, o il promesso sposo fuori di senno, in una specie di ludibrio erotico al quale, guarda caso, l’oggetto di tanto desiderio sarebbe dispostissimo a partecipare.

L’evidenza, anche qui, dell’agito è notevole. Solo una persona disturbata può infatti immaginare in tali termini paranoici e persecutori che si voglia impedirle di sposarsi. La stessa fantasia di doversi accaparrare l’altra persona, come se fosse una preda a disposizione di chi la piglia per primo, è caratteristica di chi, privo di sentimento, vede il proprio legame di coppia solo in termini erotici, e pertanto così effimero da sfumare non appena si volta l’occhio.

Altrettanto diffuso effetto delle induzioni, e non meno sconvolgente, è quello che produce negli operatori conseguenze tali per cui questi si convincono di essere essi stessi malati (mentre invece sono affetti da psicosi esogena) e, anche qui, rimanendo ben lontani dal sospetto che si tratti di materiale di provenienza esterna. Ciò che rende sempre molto difficile intervenire per impostare il trattamento di recupero.

Se nei confronti degli operatori che professionalmente si occupano di psicotici l’influenza della malattia appare così massiccia, è piuttosto logico aspettarsi un effetto delle induzioni ancora più devastante in soggetti, di gran lunga meno protetti, e meno addestrati a farvi fronte, quali sono – a esempio – quelli in età evolutiva.

Abbiamo infatti riscontrato come, attraverso un compagno di gioco, o di scuola, o addirittura da un insegnante portatore di “disturbi dell’affettività” (cioè affetto da una psicosi endogena), i bambini possano mutuare veri e propri stati psicotici anche piuttosto seri. Contrarre una psicosi esogena non è certo meno pericoloso, e anzi essa può produrre conseguenze per tutta la vita, esattamente come se si fosse contagiati da un agente patogeno fisico.

Dal contagio fisico, quello psichico si distingue tuttavia per un aspetto non secondario. Mentre il contagio fisico, fa sì che il soggetto abbia in sè la causa stessa della malattia, e questa può essere riconosciuta in lui e lì stesso affrontata, nel caso del contagio psichico il soggetto non è portatore delle cause della malattia, ma soltanto degli effetti: che bastano per farlo stare male, ma sono del tutto insufficienti per consentire di risalire alle cause, che appartengono a un’altra persona, a una realtà a lui estranea.

A seconda della diagnosi, perciò, ben diverso si presenta l’approccio nei due differenti casi.

Come si arguisce facilmente, quando ci sono sintomi di problemi di natura endogena, non appartenenti al soggetto in analisi – ed è questo il caso classico dell’operatore che incomincia a manifestarli poco dopo l’assunzione in carico di una persona disturbata – è pericolosamente inutile concentrare l’attenzione su quei problemi, anche se si manifestano in forma talmente virulenta da attrarre tutta l’attenzione possibile.

Occorre quindi risalire alla vera origine, anche se non sempre di facile reperimento. Diversamente c’è la concreta prospettiva di confermare l’analizzante nella convinzione che i problemi in parola appartengano a lui, con il rischio che diventino problemi insolubili, poiché se ne cerca la fonte in lui, quando essa è altrove. Gli effetti devastanti su di lui, diventano poi effettivi se egli non li riconosce – entro un tempo ragionevolmente breve – come frutto di induzione, proveniente da una persona disturbata.

L’approccio alla psicosi esogena può infatti contare sulla sostanziale sanità mentale del soggetto, e valersi di essa per orientare l’intervento a riconoscere la fonte delle induzioni, con la consegna contestuale all’analizzante della strumentazione psicanalitica necessaria per farvi fronte.

L’esposizione alla psicosi altrui è un momento decisivo per lo psicanalista esperto, che da essa ricava – attraverso le induzioni – tutte le informazioni indispensabili alla conduzione del trattamento del malato verso la sua guarigione, ma in chi accetta come propri i suoi contenuti patologici può produrre danni molto gravi, tali da modificarne profondamente e permanetemente la vita. La persona induzionata può andare incontro a danni anche gravi, nella convinzione di avere tendenze ed esigenze che in realtà non le appartengono, ma che ella agisce come se fossero proprie.

Il problema è alquanto serio a tutte le età, ma in particolare, come si è visto sopra, nei primi anni di vita e durante tutto il periodo dell’età evolutiva, data la assoluta mancanza di qualsivoglia forma di prevenzione.

L’aspetto più sconvolgente della psicosi esogena è rappresentato appunto dai danni conseguenti ad azioni che, per lo più, nello psicotico sono contenute a livello di desideri censurati e di aspirazioni represse, vuoi perché prevedono elementi di affettività che egli respinge, vuoi perché nella sua lucidità razionale egli comprendere essere di pericolosa attuazione, vuoi infine perché egli è sostanzialmente bloccato, nell’agire, dalla malattia psichica.

Un esempio significativo lo si può osservare nelle induzioni che influenzano la sfera dell’erotismo: può avvenire che uno psicotico, con struttura di sopravvivenza di tipo omosessuale, induca intorno a sè impotenza nei rapporti erotici eterosessuali; o che un altro, con struttura di sopravvivenza da impotente, induca negli altri una vera e propria frenesia erotica.

E’ una realtà complessa: lo psicotico, consapevole che la propria esistenza scorre sul filo di un rasoio, dell’influenza che esercita sugli altri può fare un uso che, per l’anestesia del sentimento, appare a dir poco spregiudicato.

Fra i casi che la cronaca ci sottopone ogni giorno, prendiamo quello illustrato nella pellicola di Christopher Hampton, dedicata alla pittrice inglese Dora Carrington (Carrington, 1995), “indotta” consapevolmente dallo scrittore omosessuale Lytton Strachey, a “innamorarsi”, poco più che diciottenne (ad agire cioè il suo bisogno di essere amato) e ad andare a convivere con lui.

La giovane, dal momento in cui si ritrova affetta da psicosi esogena, diventa sorda a qualsiasi richiamo al buon senso, e non solo accetta come normale fungere da esca per gli uomini che interessano al compagno, ma fa anche propria la sua struttura di sopravvivenza, consistente nel cercare sempre nuovi amanti per rinnovare l’attrazione erotica man mano che si esaurisce. Nonostante il matrimonio con un altro, non riuscirà mai a liberarsi dal rapporto patologico, e alla morte di lui si suiciderà.

Ho citato la struttura di sopravvivenza che utilizza l’erotismo, ma lo stesso vale per quella che riguarda l’ira, o la gola, o la sete di soldi o di potere: tutta la gamma dei comportamenti connessi all’anestesia del sentimento.

L’apparenza di normalità favorisce l’induzione, da parte della persona disturbata, di comportamenti patologici in coloro che vivono in contiguità con lei, e li assumono come propri, senza rendersi conto di “agire” al di fuori delle proprie effettive necessità, e della propria esperienza, come se fossero improvvisamente diventati sprovveduti e inesperti.

Dalle induzioni psicotiche traggono origine fenomeni, talvolta gravemente distruttivi per chi ne è oggetto, come nel caso della follìa degli operatori psicologi e psichiatrici. Si parla allora di psicosi esogena, in quanto la causa di essa si trova all’esterno della persona che ne è affetta.

L’induzione psicotica, prezioso strumento di conoscenza del malato di mente se utilizzata da operatori esperti, diventa pericolosa al punto da condizionarne in forma pressocché permanente la vita, per chi ne assume il contenuto come proprio.

Gli effetti delle induzioni psicotiche più gravi si hanno nei soggetti in età evolutiva, stante l’assoluta assenza di qualsivoglia forma di prevenzione in questo campo.

L’approccio alla psicosi esogena può contare sulla sanità mentale dei soggetti, e quindi sulla possibilità di consegnare loro strumenti psicanalitici, al cui utilizzo essi stessi sono in grado di provvedere efficacemente.

Vediamo ora quali strumenti offre la psicanalisi per far fronte alla malattia.

c. Come si guarisce dalla malattia psichica.

Abbiamo visto che la malattia mentale colpisce le capacità emotive della persona; abbiamo visto anche come, per non soccombere, una persona possa mettere in atto delle “strutture di sopravvivenza”, basate sulla modalità di rapporto di natura economica, a compensazione del mancato utilizzo di quella di natura simbiotica.

Come riportare, la situazione, al suo naturale equilibrio fra modalità economica e modalità simbiotica? La psicanalisi è sempre stata considerata “analisi del profondo”: oggi però possiamo parlare più propriamente di “analisi del sentimento”, vale a dire di lavoro teso a restituire al soggetto le proprie capacità affettive.

La seduta, individuale (sul lettino o di fronte allo psicanalista), di coppia, o con il genitore omologo, quasi subito ha richiesto l’adozione di rigorose precauzioni, che consentissero di “miniaturizzare” il rapporto fra analizzante e analista, e quindi anche lo scambio emotivo.

L’assenza di ogni rapporto esterno alla seduta fra analizzante e analista pone la condizione essenziale che consente di sviluppare, gradualmente e senza rischi eccessivi (in fondo l’analista è e rimane uno sconosciuto), una relazione emotiva che, grazie alla situazione iperprotetta della seduta medesima, rimane in termini microscopici.

Il lavoro analitico mette sotto la lente di ingrandimento questo microcosmo emotivo, e l’analizzante può sperimentare senza pericolo rischi e possibilità della modalità di natura simbiotica.

Ben presto tuttavia si è capito che il trattamento individuale, vale a dire l’analisi nel rapporto tra analista e analizzante, che si presenta in seduta da solo, è produttiva per un numero di soggetti limitato, per problemi e per età, e realmente risolutiva forse soltanto per coloro che siano induzionati dalla contiguità con malati di mente veri e propri, per quel fenomeno che, come abbiamo visto, Jung aveva chiamato “contagio psichico”.

La scarsità dei risultati ha indotto perciò gli analisti, a più riprese, a ricercare modalità più efficaci, specie per i soggetti allora considerati più gravi, chiamati “psicotici”, per distinguerli da quelli che apparivano meno gravi, i “nevrotici”.

Oggi abbiamo scoperto, come abbiamo accennato più sopra, che la gravità del disturbo dipende esclusivamente dalle effettive possibilità di recupero, vale a dire dalla presenza fisica o meno del genitore omologo, dal livello di cronicità, dall’integrazione sociale del disturbo, dal consolidamento dell’apparenza di normalità, dalla disponibilità a collaborare del contesto, dal coinvolgimento nella malattia dei soggetti circostanti sotto induzione.

I comportamenti manifestati infatti derivano dalla “struttura di sopravvivenza” impiegata.

Per questo motivo, per essere cioè la gravità collegabile piuttosto alle risorse esistenti intorno alla persona malata, che non a quelle presenti in lei, può risultare più facile il recupero di un soggetto che non riesce a lavorare e dichiara di “sentire le voci” (il cosiddetto “schizofrenico”), che non quello di uno buon lavoratore, ma dedito, sia pure patologicamente, a una attività socialmente accettata (per esempio all’accumulo di denaro, al successo, alle “conquiste” erotiche).

Consideriamo “psicosi” il disturbo in quanto tale, in tutte le sue forme. Sono pertanto affetti da psicosi coloro che, direttamente o per induzione, presentano disturbi dell’affettività. La vecchia distinzione, fra psicotici e nevrotici, era basata sulla maggiore o minore evidenza del disturbo, e non sempre rispecchiava la minore o maggiore possibilità di guarigione.

C’è una differenza sostanziale, in ogni modo, fra chi è affetto da disturbo endogeno (cioè sorto nel corso della propria storia) e i soggetti induzionati, affetti da disturbo esogeno (ammalatisi per contagio psichico, cioè sotto induzione psicotica proveniente da un componente del loro contesto, affetto da disturbo endogeno). Infatti, a seconda del tipo di disturbo occorre seguire la metodica appropriata e, in particolare, nel caso di psicosi esogena, agire sulla vera fonte del disturbo, sovente così ben mimetizzata da risultare di difficile accesso.

La necessità di assumere in carico, soprattutto, soggetti affetti da psicosi endogena, ha portato noi alla ricerca di strumenti adatti per poter lavorare.

Abbiamo identificato quindi, nel rapporto d’amore primario tra figlio e genitore omologo, l’esperienza di fondo da dove ogni persona trae il riferimento emotivo fondamentale, quello sul quale costruisce tutto il proprio equilibrio psicofisico e dal quale trae la certezza della propria identità personale.

Abbiamo sperimentato per venticinque anni la modalità di lavoro con in seduta padre e figlio, madre e figlia. Quando sono abbastanza piccoli, mettiamo semplicemente i figli in braccio al genitore. Quando sono adulti, li facciamo stare abbracciati più volte per seduta.

In realtà non si tratta di un abbraccio, ma di un gesto antico: quello con cui il genitore teneva in braccio il neonato, sostenendogli con un braccio la testa, ancora incapace di reggersi diritta, e sorreggendolo sull’altro.

I risultati sono risolutivi. Si tenga conto inoltre che per ottenerli sono sufficienti sedute quindicinali o, al più, settimanali, e quindi con costi estremamente ridotti. Qualsiasi analista, con una solida preparazione, è in grado di sperimentare da solo questa metodica, e di verificarne egli stesso l’efficacia.

Ci sono anche casi così gravi, per cui non è semplice ottenere che i figli entrino anche solo in contatto fisico con il genitore: ma non è un impedimento. Per lo più provvede da sè il genitore, dentro o anche fuori seduta, quando si presenta il momento propizio per una carezza, per rimboccare le coperte del letto, per un gesto affettuoso.

Non è compito dell’analista insegnare al genitore come si fa: sarebbe come voler insegnare ai gatti ad arrampicare. Per quanto esperto sia, egli non arriverebbe mai alle soluzioni, alle vie d’uscita che solo l’amore fra genitore e figlio è capace di trovare.

Il rapporto d’amore primario resta pertanto l’unico luogo empatico dove il soggetto, emotivamente deprivato, si riconosce capace di utilizzare i sentimenti, di scongelarli dall’anestesia in cui, in attesa di tempi migliori per riportarli, con se stesso, alla vita, li aveva avvolti.

Quando il genitore non ci fosse più, la guarigione è ancora possibile, poiché l’analisi è sempre dell’esperienza storica d’amore tra figlio e genitore, e non di quella contemporanea.

Non è pensabile fare da adulti un’esperienza primaria d’amore, anche perché, se il rapporto d’amore manca all’inizio, si muore: l’analizzante è vivo, e quindi l’esperienza d’amore c’è stata.

I disturbi sono legati alle interferenze successive nel rapporto, fino a produrre la reazione di anestesia del sentimento; si tratta allora di recuperare quello che c’è stato, non di creare qualcosa di nuovo. Ecco perché, in assenza del genitore, il trattamento è più complesso, ma i risultati raggiungibili ugualmente. I maggiori vantaggi si hanno quando almeno un parente del medesimo sesso, una sorella o un fratello, meglio se maggiori d’età del soggetto in analisi (ma anche zie e zii, e persino cugine o cugini omologhi) è entrato nella seduta.

Resta il problema di chi non ha nessuno. Sono meno frequenti, e non sono affatto tutti disperati. Spesso hanno risorse insospettabili. Sono tuttavia l’evidenziatore di quanto sia urgente una azione di prevenzione e di igiene mentale su ampia scala.

Si guarisce dalla malattia mentale ripristinando l’agibilità della modalità di rapporto di natura simbiotica, basata sull’esperienza di rapporto d’amore avuta, con il genitore omologo, nei primi mesi di vita. La presenza in seduta del genitore stesso consente la certezza del ripristino. Anche quando il genitore non ci fosse più la guarigione è possibile poiché si lavora sull’esperienza storica, sulle testimonianze di essa e non su quella attuale.