Equilibrio precario

Abbiamo bisogno di equilibrio, sempre.

Poggiamo i piedi su una terra che ci dà sicurezza o su un filo sospeso nell’aria.

L’equilibrista sceglie di mettersi in una situazione di pericolo per mostrare la sua abilità, mentre noi, talvolta, ci sentiamo sospesi nel vuoto nostro malgrado.

Precarietà, instabilità, paura del futuro sono le parole che l’anno appena concluso ha diffuso sempre di più.

E questo determina le nostre incertezze, il nostro sentirsi appesi a un filo.

Ma ci sono aspetti non sempre espliciti in questo equilibrio precario.

Sembra che nella lotta tra avere o essere di Erich Fromm, la prevalenza dell’avere nella nostra società sembra avanzare incontrastata.

Eppure l’equilibrio non è dato semplicemente dal possesso di beni.

Vittorio Volpi, psicanalista, scriveva:

“La salute mentale si fonda sull’equilibrio fra due modalità di rapporto con la realtà circostante: quella di natura economica e quella di natura simbiotica.

La modalità di natura economica mediante l’intelligenza razionale (o ragione, capacità di rilevare e collegare fra loro secondo nessi logici i fenomeni osservati) interviene a stabilire il rapporto psicofisico con il contesto circostante, per garantire la sopravvivenza fisica dell’individuo.

La modalità di natura simbiotica si vale del sentimento (o sensibilità emotiva, capacità di commuoversi, ovvero di sentire e di esprimere i contenuti emotivi, in sè e nella comunicazione con gli altri. Da non confondersi con la capacità di provare determinate emozioni, quali la paura, l’ira, la gratificazione, la soddisfazione) nello sviluppo del rapporto psicoaffettivo con il proprio contesto umano e ambientale, e garantisce la sopravvivenza emotiva dell’individuo.”

(Vai all’articolo per approfondire)

Da queste righe si deduce che:

Se temiamo per la nostra sopravvivenza fisica, per i nostri bisogni, possiamo ricorrere ai nostri affetti per cercare di compensare le nostre carenze.

In effetti i poveri sfortunati che muoiono magari di freddo in questi giorni nel mondo occidentale, con ogni probabilità non hanno nessuno al mondo a cui chiedere aiuto; cioè la loro povertà, oltre che economica, è anche affettiva.

Se invece temiamo per i nostri sentimenti, li consideriamo inaccettabili, non siamo più in grado di riconoscere l’amore che i genitori provano (o hanno provato) per noi come un sentimento che ci riscalda, che ci rassicura, che ci fortifica, allora per forza di cose ricorriamo ai bisogni materiali, e in tal senso siamo portati a sopravvalutare i nostri bisogni reali e a sentirci deprivati se non godiamo di tutte le comodità che il mondo moderno ci propone.

Scriveva ancora Vittorio Volpi:

“Come si manifesta la perdita dell’equilibrio fra la modalità di rapporto di natura economica e quella di natura simbiotica, a danno di quest’ultima?

Principalmente con l’instaurarsi dell’anestesia del sentimento e, di conseguenza, con l’ipertrofia delle facoltà razionali per compensare le carenze sul versante affettivo.”

Alla luce di queste considerazioni occorre chiedersi se la nostra società moderna non sia di per sé completamente sbilanciata verso il materialismo, ovvero verso quella modalità economica dove sembra che l’unica cosa importante sia il consumo e il possesso di oggetti sempre più potenti da un punto di vista tecnologico.

Diventando sempre maggiori le necessità economiche di una società che sopravvive soltanto grazie a una iperproduzione di oggetti per lo più superflui, le capacità tecniche più importanti, oltre a quelle legate alla produzione industriale, sono proprio le tecniche di persuasione che, grazie a leve di tipo emotivo, riescono a condizionare la nostra percezione del mondo.

Ormai siamo diffidenti verso qualsiasi prodotto che non abbia un sufficiente supporto pubblicitario.

Ciò significa che quando noi compriamo un prodotto paghiamo, oltre al costo della produzione i costi legati alla diffusione del prodotto.

Cioè io compro l’auto X piuttosto che Y perché la comunicazione che ha svolto X è più convincente di quella di Y.

Almeno per me, che non sono altro che un individuo che fa parte di un certo gruppo di individui che costituisce l’obiettivo dei comunicatori di X.

Ma questa necessità di vendere ha bisogno di una carenza affettiva sulla quale costruire i bisogni.

Perciò la società è portata a distruggere i rapporti affettivi, in quanto essi non sono altro che una distrazione dal consumo.

La stessa diffusione del fenomeno dei single, che tendono a diventare più numerosi delle famiglie, ha un bel riscontro nel consumo. Vediamo per esempio che, secondo la Coldiretti, “La spesa mensile per gli alimenti di un single ammonta a circa €312,00/mese mentre quella di una famiglia ammonta a circa €190/mese. Quali sono le ragioni alla base di questa tendenza?”

Ma quali sono le conseguenze di questo disequilibrio? Che risvolti pratici può avere per noi conoscere queste cose?

Possiamo fare molta attenzione a tutto ciò che tende a separarci dai nostri affetti.

Si comincia subito, anche prima della nascita, preparando un parto dove la separazione tra madre e figlio sarà immediata, sempre che si abbia la fortuna di riuscire ad evitare un parto cesareo che esclude la mamma dalla coscienza della nascita.

Poi si continua sabotando l’allattamento al seno e si va avanti raccontando fandonie sugli asili nidi che già a sei mesi aiuterebbero i bambini a socializzare …

E si continua a interferire in ogni modo nel rapporto d’amore tra genitori e figli, grazie agli esperti, sempre più competenti dei genitori, alla scuola dove i genitori sono spesso vissuti come la causa delle difficoltà dei figli e dove il giudizio scolastico pesa come un macigno ed è squalificante nei confronti dell’autorità dei genitori.

Infatti l’autorità dei genitori passa subito in secondo piano, anzi viene annullata in confronto a quella degli insegnanti che hanno il potere di assegnare un voto, un giudizio che assegna ad ogni bambino un suo valore “oggettivo” poiché proviene dall’esterno della famiglia.

In effetti la scuola, così com’è attualmente strutturata, con i suoi giudizi, valuta non soltanto i ragazzi ma anche le loro famiglie, minando le sicurezze e le capacità dei genitori.

In definitiva il nostro equilibrio sembra sempre più appeso ad un filo, ma sta a noi fare attenzione a non farsi abbindolare, ad evitare di pensare che tutto dipenda da ciò che possiamo permetterci e ciò cui dobbiamo rinunciare.

Sta a noi impedire che le esigenze materiali ci costringano ad un eccessivo allontanamento dai nostri affetti, che hanno bisogno di essere coltivati, hanno bisogno di tempo e non soltanto di un paio di scarpe nuove.

Attenzione, cadere dal filo cui siamo appesi fa male!

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